Vivo in un paese che forse non ha mai avuto un rapporto di stretta connessione e di orgoglio tra prodotti e territorio.
Il concetto di filiera forse proprio per eccesso di individualismo è stato sempre un problema astratto. Da qualche anno a questa parte mi domando spesso, quando vado a mangiare in un ristorante, ma anche quando faccio la spesa dal bottegaio o al supermercato, da dove arrivi il cibo che mangio o il vino che bevo. D’altronde chi non si pone mai queste domande, quasi tutto il marketing ci bombarda di km-0 e altre strategie.
Sui vini, locali però ho sempre avuto una discreta fiducia, vivo in mezzo ad un luogo di produzione che è giudicato di “eccellenza nazionale e internazionale” al di là di ogni ragionevole dubbio, fino a poco tempo fa mi fidavo soprattutto di quello che bevevo perché locale ci sono le vigne sai chi lì produce e come.
Ultimamente però sto iniziando ad osservare diverse questioni riguardo alla mentalità con cui si produce e si propone il vino di eccellenza locale, il verdicchio, che mi sollevano altrettante domande.
Si perché stanno accadendo fatti che, se in un primo momento avevo intenzione di tenere per me, e riporli in quell’account mentale dei “chissà”, oggi penso sia opportuno, viceversa discuterli insieme o magari solo portarli alla luce.